Per una volta non voglio scrivere di dati economici, di kilowatt o di crescita del mercato ma raccontarvi una storia, virtuale. Quella che in narrativa si chiama fiction e dove i riferimenti a fatti e persone sono puramente casuali. L’unica cosa non casuale è il tempo in cui questa storia si svolge: gli ultimi tre anni.
Prendi un imprenditore, meglio se italiano, un mercato nuovo e fortemente incentivato, una filiera tutta da costruire, delle fabbriche da far nascere sul territorio, degli operai che hanno bisogno di lavorare perché hanno già perso, in passato, il posto di lavoro ed ecco, la docu-fiction.
Se pensate di riconoscervi in qualcuna di queste storie continuate a leggermi e cliccate su “leggi tutto”, se no, fermatevi qua.
Un’iniezione di creatività che vuole anche essere di speranza e positività. Qualcuno, dall’altra parte del mondo, è anche riuscito a tradurlo in realtà.
Katinka ha 28 anni ed è rumena, Domnita ne ha 30 e viene dalla Moldavia, Maria 40 ed è di Reggio Emilia, Selina 28 ed è nata a Tangeri. Tutte indossano dei camici bianchi, delle cuffie per coprire i capelli e degli occhiali per proteggersi gli occhi. Tutte, lavorano in silenzio, senza mai alzare gli occhi perché devono incastrare uno ad uno i piccoli quadretti di silicio, senza mai perdere di vista ogni millimetro che deve combaciare perfettamente. Le loro mani, piccole e precise, scorrono veloci e velocemente assemblano migliaia di celle, tutto il giorno, per otto ore. Per loro l’azienda offre una riduzione di orario per poter stare a casa con i propri figli ma essere un’operaia, ai tempi della green economy in crescita, vuol dire non conoscere sabato o domenica. Dalle loro mani la grande lastra di silicio è pronta per passare da un tunnel all’altro, continuamente monitorata per poi arrivare finalmente alla fine del suo percorso ed essere “sollevata” da un enorme braccio meccanico. Da lì Azekel del Maghreb e Paki, del Senegal, la incastrano dentro una cornice e, una volta pronto, il grande specchio arriva finalmente al test di conformità. Lì ci sono Marco e Aldo che ne verificano e contro verificano l’attendibilità tecnica. L’ultimo passaggio è negli scatoloni, per poi raggiungere i campi della Puglia, le stalle del Veneto, i capannoni della Brianza, le serre della Sicilia o il tetto della signora Maria.
Era la fine del 2009 e si lavorava su tre turni, senza sosta per 1000 euro al mese, forse 1300 per chi aveva una specializzazione. Ma già nel 2010 ecco arrivare altri operai, 50 nuovi addetti alla produzione perché il signor Mario stava inaugurando la terza linea. Insieme agli operai erano arrivate le nuove macchine, almeno 25 milioni di euro di mostri meccanici da cui sarebbero passate altre centinaia e centinaia di lastre di silicio. Per Paki che aveva già perso il posto di lavoro in un’altra fabbrica e per Azekel che arrivava da un freddo paese dell’Alto Atlante si iniziava a pensare ad una macchina nuova, forse, chissà, ad un mutuo con la banca. Domnita finalmente poteva comprare quel nuovo gioco alla sua bambina di 7 anni e Selina poteva mandare qualche soldo a casa, ai suoi genitori che non vedeva da due anni. I raggi di sole stavano entrando anche in quella fabbrica e si iniziava a dimenticare che ogni tanto si respiravano delle strane esalazioni e che quel lavoro, alla lunga, ti logora.
Ma un giorno di maggio, quando fuori splendeva un sole ormai primaverile ecco arrivare una notizia, difficile da comprendere per quei 120. Il Ministro, a Roma, aveva deciso di ridurre gli incentivi e il signor Mario era molto, molto preoccupato. Cosa ne sarà di noi, si interrogavano i 120 senza capire cosa stava succedendo fuori dalla loro fabbrica. Per chi i business plan li aveva fatti prima di quel giorno di primavera, era abbastanza chiaro cosa sarebbe successo. Se dal segno più dei fatturati si passava al segno meno, qualcosa andava rivisto, non certo i bonus dei manager. Intanto gli scatoloni con dentro i pannelli giacevano all’uscita dello stabilimento e i camion avevano smesso di arrivare. I cinesi, sembrava, fossero la causa di quel disastro ma per chi arriva dal Senegal o dalla Romania non è facile capire. Capire come dei piccoli uomini con gli occhi a mandorla possono spazzare via il loro posto di lavoro. “I nostri pannelli costano troppo”, si raccontavano gli operai, “e anche noi siamo troppo cari”.
A fine mese intanto, i mille euro non arrivavano più mentre le bollette e i debiti non aspettavano nessuno. Per Paki la macchina doveva essere pagata e Domnita aveva fatto un mutuo per far vivere la sua bambina in una bella casa con un piccolo giardino. “Cosa ne sarà di noi”, si interrogavano i 120, senza trovare risposte. “Perché è toccato a noi? Non eravamo in un settore nuovo, non in crisi, sovvenzionato dallo Stato? Ci stanno cancellando per portare le produzioni altrove o per venderci ai cinesi”, rispondevano i più informati.
Erano passati solo due anni e la vita dei 120 era già in pezzi. Nel frattempo le banche promettevano che i soldi sarebbero arrivati da lì a poco e, il signor Mario, che avrebbe pagato gli stipendi e riavviato le macchine. Ci vogliono almeno due mesi per far ripartire quelle macchine una volta bloccate e, tanti, tanti soldi per rimetterle in funzione. C’erano in ballo delle trattative per far entrare una società araba, poi dei russi ma alla fine non se ne fece niente. I soldi delle banche non arrivarono o forse arrivarono ma non per salvare le macchine e i loro custodi. Il SUV del signor Mario intanto non c’era più fuori, nel cortile e i curatori fallimentari stavano setacciando tutto lo stabilimento per fare l’inventario.
Ma i 120 “naufraghi dello sviluppo sostenibile” non volevano rassegnarsi ad un destino da emarginati. Qualcuno iniziava a parlare delle fabbriche recuperate, quelle che in Argentina, dopo la crisi del 2011, avevano riacceso la speranza a tantissimi lavoratori. Qualcuno raccontava che gli stessi operai avevano espropriato la fabbrica e si erano costituiti in cooperativa, che altri non avevano ottenuto l’esproprio ma continuavano a presidiare la fabbrica, rischiando personalmente, per difendere il proprio lavoro. Per rimetterle in attività i lavoratori avevano imparato a vendere e comprare merce, a tenere la contabilità, a trovare fornitori. In queste fabbriche oggi si balla il tango, si sono costruiti asili per i bambini, allestiti spettacoli e creati dei luoghi dove la gente si incontra. Tutti insieme, uniti perché la cooperazione può superare la concorrenza. Il mercato ha le sue regole ma i lavoratori possono organizzarsi pensando a modelli diversi.
Per noi è ancora fiction ma in Argentina oggi ci sono ben 200 fábricas recuperadas che lavorano e producono.
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Sembra proprio la stessa storia della societa’ di noi operai ce.mi. di cisterna di latina che consociati alla xgroup di padova per tanti anni ci siamo spaccati la schiena per raggiungere obbiettivi umanamente irraggiungibili e di punto in bianco ,ma proprio dall’oggi al domani nel vero senzo della parola e senza un che minimo preavviso ci siamo trovati in cassa integrazione e non sappiamo ad oggi ancora il perche’.
Se c’e’ qualcuno in italia che ci potesse spiegare che cosa e’ successo o cosa succedera’ alla xgroup o alla ce.mi.srl glie ne saremo molto grati.
Caro Mario
grazie per la preziosa testimonianza. La storia che ha letto è purtroppo una “delle tante” ma è vero può essere la vostra, come quella di altre aziende e persone che ci lavoravano. Questo blog ne ha raccolte una minima parte ma spero che il libro che sto scrivendo ne possa far conoscere altre ancora. Come voi, tanti operai e non solo, si sono trovati senza lavoro dall’oggi al domani, senza avere risposte. Purtroppo la strada più facile rimane sempre quella della bancarotta trasferendo la responsabilità al Governo, alle tasse, agli incentivi, all’impossibilità degli imprenditori di fare impresa in Italia ecc ecc. Quello che mi spiace è che la voce di chi come lei “si è spaccato la schiena” non ha mai la risonanza e il rispetto che si merita.
In bocca al lupo!
Lucia