Si conclude oggi la settimana del design a Milano: la sostenibilità e i prodotti eco-compatibili protagonisti indiscussi. Ma davvero questa è l’Italia che guarda al futuro?
Girando per le strade di Milano sembra di vivere in un’altra città. Una città a misura di giovane creativo dove i bar, le strade, le piazze che ospitano i luoghi del design sprizzano vitalità da ogni dove. Tutti parlano una lingua diversa, persino “le signorine” che vendono gli abbonamenti Vodafone all’angolo di Via Tortona snocciolano un’inglese degno del miglior British School. Una Milano finalmente internazionale dove i luoghi e gli eventi dedicati al design del futuro sono aperti al pubblico, gratis e fruibili, come in ogni posto del mondo. Una Milano dove per oltrepassare un ponte e arrivare nell’animatissima via Tortona devi fare una coda di venti minuti e dove le parole “sustainability”, “energy efficiency”, “renewable energy”, “low impact”, si sprecano quasi come le centinaia di persone per strada.
Per chi come me queste parole le sente da oltre vent’anni, potrebbe sembrare un grande risultato. Finalmente il concetto di “preservare ciò che non ci appartiene” è diventato di dominio comune e se ad occuparsene sono persino i settori potenzialmente più importanti per l’economia italiana, come quello del design, siamo sicuramente sulla strada giusta. Un dubbio però sorge spontaneo.
La sostenibilità e diventata di “moda” nel momento in cui abbiamo meno e quindi dobbiamo ragionare in modo sostenibile o è diventata realmente un modo di progettare e concepire le risorse? Ad ascoltare molte aziende presenti alla “design week”, questo concetto fa parte del dna aziendale: per loro discutere di cambiamenti climatici vuol dire prendersene carico, vuol dire adottare comportamenti virtuosi, vuol dire fare qualcosa di pratico per combatterli. Il pratico, almeno guardando le brochure e le presentazioni, al momento sembrano ancora delle azioni di responsabilità sociale sulla carta oppure dei progetti di carità “un po’ pelosa” per aiutare chi ha men. Un buon inizio d’accordo ma nel frattempo nella classifica dei paesi “bisognosi” ci stiamo entrando anche noi e ci sono entrati altri paesi europei, come ad esempio la Grecia.
Anche gli stessi organizzatori hanno attivato un processo per elaborare la mappatura dell’impronta ambientale della “design week” per poter poi arrivare, recita la brochure, “a ridurre questo impatto progressivamente negli anni, con l’ambizione di diventare una sorta di “isola della sostenibilità”, nel cuore di Milano”.
Altri anni dunque per arrivare ad un risultato che sia realmente sostenibile. Nel frattempo mentre cammini per via Tortona qualcuno svuota i cestini prendendosi i resti delle lattine di birra e si riempe una bottiglia da portarsi a casa. E non sembrano certo degli alcoolisti accaniti. Sembrano più delle persone normali che, spinti dalla necessità, si mischiano alla folla di giovani designer per raccattare qualcosa da bere o da mangiare. Del resto, se pensiamo che persino Emergency ha lanciato il programma Italia per raccogliere fondia favore della costruzione di due nuovi ambulatori a Napoli e a Polistena (RC) (che si affiancheranno a quelli già operativi di Palermo e Marghera), non siamo certo così lontani da paesi del sud del mondo.
A Milano è vero, si respira un’altra aria ma non per questo dobbiamo pensare che questa è l’Italia che potrà portare avanti anche quella che non ha i soldi per curarsi. Il concetto di sostenibilità è, almeno a mio avviso, soprattutto questo. Il resto, almeno quello che si vede in giro alla settimana del design, è soprattutto progettualità, creatività e lusso. Ben venga essere riconosciuti nel mondo per questo ma con un piede nella realtà.
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