“La rivoluzione della lattuga”, in questi giorni in libreria, è un viaggio dal Nord al Sud del mondo con un protagonista del tutto inconsueto: il cibo.
Autrice del libro, Franca Roiatti, giornalista friulana, capo servizi esteri a Panorama che, un po’ per lavoro e un po’ per passione, da tempo si occupa di “economia del mangiare”.
“Bianco, rosso e green economy” ha incontrato Franca per chiederle se, davvero, è ancora possibile ri-partire dalla lattuga per riprenderci il nostro rapporto con la terra e le sue risorse.
Per nutrirci spendiamo una percentuale altissima del nostro reddito. Ma è vero che il resto lo paga la Terra?
Sullo scontrino non compaiono mai tutte le voci di spesa, la conta delle risorse impiegate o distrutte per avere la bistecca, le merendine o le banane. Se fossero conteggiate forse non ce le potremmo permettere. Molti segnali ci stanno avvertendo che a partire da domani non potremmo più farlo. Nel 2020 saremo 9 milioni di persone e già ora abbiamo esaurito la Terra!
Produciamo troppo e sprechiamo molto. Siamo denutriti da una parte del mondo ma obesi dall’altra. Il sistema sembra impazzito ed è vero che abbiamo perso il controllo?
Più che il controllo abbiamo perso il senso reale di quello che è il vero significato del cibo. E’ l’energia del corpo umano, fa parte di noi, ci caratterizza e ci dà il senso della nostra storia. Attraverso la coltivazione delle carote e delle cipolle si possono raccontare i cambiamenti climatici, attraverso il gusto e i sapori ricordare chi eravamo e da dove veniamo. Durante il mio viaggio la cosa più bella è stata scoprire l’esigenza dei giovani di tornare alla terra. Ci sono molti modi per riappropriarsi di un rapporto con il cibo. Tante strade per rifiutare l’idea che quello che finisce sulle nostre tavole sia un prodotto come tanti altri, di sola e pura convenienza.
Ma abbiamo veramente fame?
Forse no. Siamo solo anestetizzati da tanta abbondanza e non abbiamo più voglia di pensare che il cibo rappresenta il contatto più profondo con la terra e la natura. Nelle città africane e asiatiche larghe fasce della popolazione più povera riesce a procurarsi da mangiare coltivando angoli di terra, allevando galline. I cittadini del nord del mondo, invece, per molto tempo sono sembrati indifferenti al destino delle campagne.
La crisi, anche nel piatto, dove ci sta portando?
Sono in atto dei cambiamenti importanti, soprattutto a livello locale. Coltivando la terra si ritrovano i rapporti e si mettono insieme realtà diverse che presidiano il territorio e non ne disperdono la ricchezza. Basti pensare alle realtà dei Farmers market. Negli USA il loro numero tra il 1998 e il 2009 è passato da 2700 a più di 5200. In Italia quelli della Coldiretti sono 800, nel 2010 il loro numero è cresciuto del 28 per cento e più di 8 milioni di italiani vi hanno fatto la spesa. Anche i mercati di prodotti esclusivamente biologici sono cresciuti del 7 per cento. Si può cominciare con una pianta di pomodori sul balcone, facendo quattro chiacchiere al mercato dei contadini, si può coltivare un orto collettivo o decidere di aderire a un gruppo di acquisto solidale. Nuove relazioni umane possono nascere, perché no, intorno a un chilo di pesche, a della farina biologica e al formaggio di un’azienda vicino a casa. Ed è proprio la crisi, quella di sopravvivenza a Sarajevo o quella economica di Buenos Aires ad aver portato le comunità a ritrovarsi intorno al cibo: la coltivazione dei giardini pubblici per dimenticare gli orrori della guerra o gli orti per sconfiggere la fame durante la grande depressione in Argentina.
Un viaggio alla ricerca del piatto perduto o un’inchiesta giornalistica sulle nuove abitudini alimentari di chi vuole semplicemente ritrovare il legame con le risorse del pianeta e anche un po’ con se stessi?
E’ un viaggio tra realtà molto diverse tra loro ma che raccontano le stesse esperienze di democrazia alimentare urbana. Difficile conoscere il numero reale di GAS italiani AMAP francesi o CSA americane, molti gruppi di acquisto rifuggono dai censimenti. Le stime dicono che i GAS potrebbero essere già 2000 in Italia, le AMAP 1500, le CSA circa 2500. Una fotografia scattata ai GAS del Veneto rivela che 155 gruppi della regione muovono circa 5 milioni di euro all’anno, che salirebbero rapidamente a 7,5 se tutti i gruppi e non solo l’attuale 53 per cento facessero la spesa una volta alla settimana. Tante storie di uomini e donne che, grazie al cibo, ritrovano identità e lavoro. A Bologna, da operai edili si può diventare contadini di successo, in Brianza da agricoltori, grazie a una filiera virtuosa, si passa il testimone ai figli che possono fare i fornai.
Nel tuo libro racconti di Cuba “senza petrolio”, di Detroit “senza pistoni”, dei nuovi contadini di Brooklin che coltivano i tetti e degli orti di tutti e per tutti. Ma chi sono questi food citizen che strappano la terra al cemento?
A Cuba l’agricoltura urbana oggi impiega 300 mila persone e produce circa il 60 per cento della frutta e della verdura consumate sull’isola. Una vera e propria rivoluzione che oggi ha portato il 60% dei cubani a cambiare dieta: non più solo fagioli ma splendide carote conosciute in tutto il mondo per i progetti di ricerca promossi dal Governo stesso.
Uno studio condotto dalla Michigan State University calcola che sulla terra vuota di Detroit (alcuni stimano circa 100 mila acri, dei quali 30 mila in mani pubbliche) si potrebbe ottenere tra il 17 e il 42 per cento della frutta e tra il 31 e il 76 per cento della verdura consumate in città
Secondo l’ACGA (American Community Garden Association) fra Stati Uniti e Canada ci sono almeno 18mila community garden. Solo un migliaio soltanto a New York. Tutti stanno lavorando per ripensare gli spazi urbani sottraendoli al cemento, per poi raccontare ad altre città del mondo come ritrovare il legame con la terra.
“La rivoluzione della lattuga”- prefazione di Carlo Petrini – Egea Edizioni
Per informazioni: http://www.egeaonline.it/editore/catalogo/rivoluzione-della-lattuga-la.aspx
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