La sfida all’insostenibilità ambientale della fast fashion parte dalle periferie indiane. Il progetto Soruka dimostra che una moda consapevole non è solo possibile, ma necessaria.
Il settore della moda lo scorso anno ha stabilito un nuovo record incrementando tra il quattro e il cinque per cento il suo volume già enorme di vendite e immettendo sul mercato oltre 150 miliardi di capi di abbigliamento. Inoltre il consumatore medio di oggi, si legge nel rapporto The state of Fashion, acquista il 60 per cento in più dei capi rispetto a 15 anni fa e li conserva soltanto per la metà del tempo.
Quindi quanto è compatibile la passione per lo shopping con l’equilibrio dell’ambiente? Una risposta, in controtendenza con la fast fashion, è fornita dalla realtà dell’azienda spagnola Original arts che attraverso il progetto Soruka produce borse con i ritagli e le partite fallate dell’industria indiana del pellame; scarti che altrimenti verrebbero bruciati o sotterrati.
La sfida di Soruka, dare dignità agli scarti
Soruka evita che pire di rifiuti di pelle delle industrie della moda indiana brucino nelle periferie inquinando l’atmosfera, o che vengano sepolti in discariche illegali dove, visti i trattamenti chimici che avvengono sui materiali, contaminano il sottosuolo per decenni, prima di decomporsi. “Coordinata da Original arts, Soruka è nata cinque anni fa a Calcutta e a Delhi”, racconta David Cambioli, presidente della cooperativa Altraqualità che distribuisce in Italia i prodotti provenienti dall’India. “Soruka si oppone a un processo di spreco e di inquinamento ambientale attraverso la creazione di una linea di borse, realizzate con ritagli di pelle recuperata”.
Perché è nato il progetto Soruka
Questo progetto nasce per trasformare gli scarti in articoli utili alle persone, dando loro un nuovo valore e contribuendo al contempo a ridurre l’impatto ambientale del pellame impiegato nel mondo della moda e prodotto in India. “La collezione Soruka è disegnata in uno stile senza tempo, fatto per sopravvivere a trend stagionali. C’è di più, ogni pezzo è unico e irripetibile ed è fatto a mano da piccoli artigiani indipendenti”, spiega Cambioli. “La partnership con loro è un modo per creare lavoro in un ambiente a basso reddito come quello indiano e anche una forma per preservare l’artigianato tradizionale”. Tutti gli artigiani di Soruka sono adulti formati che ricevono il salario dal commercio equo e solidale (fair trade) dei loro prodotti.
“La vendita di articoli ricavati dal pellame di scarto è per Soruka uno strumento per creare lavoro per i produttori locali che sono economicamente svantaggiati o emarginati dal sistema convenzionale e per incentivare lo sviluppo sostenibile del territorio”. Per questi artigiani indiani, sostenibilità significa rispettare il materiale utilizzando ogni singola parte in modo che nulla vada sprecato
Quanto inquina la moda fast fashion
Gli sprechi e la nostra smania per gli acquisti di abiti ed accessori rende invece il comparto della moda il secondo settore al mondo più inquinante dopo quello petrolifero. Secondo la rivista Nature il tessile è responsabile a livello planetario di 1,2 miliardi di tonnellate di CO2 all’anno, una quantità di emissioni superiore a quella prodotta dalla somma dei voli internazionali e dalla navigazione.
Sulla terra siamo in circa 7,7 miliardi di persone e alcune stime calcolano che vengano immessi ogni anno sul mercato oltre 150 miliardi di capi di abbigliamento. La nostra compulsione per gli acquisti e il sistema che lo rende possibile, è chiamato fast fashion. L’espressione indica quell’insieme di prassi adottate dai marchi della moda per vendere capi economici sempre più velocemente. Questo modello tende a ridurre all’estremo i prezzi per aumentare le vendite. E ciò aggiunge al problema della quantità, quello della qualità degli oggetti sfornati dal mondo del fast fashion. Uno dei modi per aumentare la produzione e abbattere i costi è l’ampio ricorso alle fibre sintetiche al posto del cotone.
E a pagare il conto di queste scelte, ancora una volta, è l’ambiente. Non soltanto perché la produzione di una maglietta in poliestere emette nell’aria 5,5 kg di CO2 contro i 2,1 kg di un capo fatto in filo naturale, ma anche perché ogni volta che la laviamo liberiamo microplastiche. Le nostre lavatrici ogni anno riversano nei mari l’equivalente di 50 miliardi di bottiglie di plastica sotto forma di particelle di poliestere. È quanto emerge dallo studio del 2015 Sustainable apparel materials, condotto dal Global compost project, il gruppo che riunisce scienziati ed esperti internazionali sulle tematiche legate al suolo e ai rifiuti.
Che cosa fare, dunque, di fronte a uno scenario del genere? “Bisogna cambiare radicalmente prospettiva di produzione e di commercio”, afferma sicuro Davide Candioli.
Leggi qui l‘intero articolo di Luca Cereda pubblicato su Lifegate.it il 20 febbraio 2020
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