Uno dei testi più forti della storia del liberalismo è la “Petizione dei fabbricanti di candele“, con la quale Frédéric Bastiat ridicolizza gli argomenti protezionistici attraverso l’immaginaria lamentela, appunto, dei produttori di candele contro la concorrenza sleale del sole. Se Bastiat vivesse oggi, scriverebbe la petizione dei fabbricanti di pannelli fotovoltaici.
A scriverlo era Carlo Stagnaro (direttore Istituto Bruno Leoni) su Chicago Blog del 29 aprile 2011. Allora erano i produttori italiani che chiedevano a gran voce misure per proteggere i loro prodotti dall’invasione del basso costo cinese. E così è successo. Il Governo introdusse il premio del 10% per i pannelli “Made in EU”.
Oggi, dopo oltre un anno e mezzo in cui i pannelli cinesi hanno invaso mezzo mondo (anche gli Stati Uniti sono corsi ai ripari imponendo pesanti dazi), ecco riproporsi il tema del dumping cinese. In prima linea, questa volta, ci sono i produttori di pannelli fotovoltaici europei, con il pieno appoggio di Bruxelles che ha lanciato una battaglia contro la concorrenza sleale dell’ex celeste impero. Un pannello cinese oggi arriva sui mercati europei con un margine di dumping del 60-80 per cento: le perdite vengono però coperte dai quattrini pubblici.
Del resto, in un’economia globale, le storie di pratiche illegali coperte dallo Stato non sono una novità così come le misure per correre ai ripari: alla fine del 2010 124 sono state le misure antidumping intraprese dall’Unione Europea per proteggere le proprie imprese ed arginare “la scalata” a fette di mercato. Quello del fotovoltaico però è il caso più pesante, mai inaugurato da Bruxelles.
I maggiori imputati sono gli asiatici e in particolare la Cina. In particolare, verso quest’ultima, l’Europa ha sempre dimostrato una reverenza persino eccessiva e oggi queste misure sono sicuramente il segno di un cambiamento importante.
Il vertice bilaterale tra Unione Europea e Cina è alle porte (l’ultimo contatto preparatorio sarà il 20 settembre a Bruxelles) ma l’inchiesta sul “sole sleale” durerà almeno un anno.
Nel frattempo, una cosa è certa. Ancora una volta si chiede un intervento pubblico là dove un’industria, sia pur in crisi ma ormai giunta a maturità, dovrebbe saper – e voler – camminare sulle proprie gambe. E gli errori fatti in passato lo dimostrano ampiamente. Finita l’era della disputa sugli incentivi si inaugura forse quella della disputa meramente politica, in nome e per conto del rispetto delle regole (commerciali)?
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