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In occasione della presentazione dello studio su “Lo sviluppo delle energie alternative e crescita economica – scenario 2010 – 2035” ho chiesto a Carlo Stagnaro, Direttore Ricerche Istituto Bruno Leoni, autore della ricerca insieme a Francesco Forte, come vede oggi le rinnovabili made in Italy e, quali i prossimi passi da percorrere per uno sviluppo sano del settore. Parole chiave, secondo Stagnaro, innovazione, ricerca e soprattutto meno incentivi.

Carlo Stagnaro, Direttore Ricerche Istituto Bruno Leoni

Quanto, ad oggi, gli incentivi destinati alle fonti rinnovabili hanno creato industria italiana. La crisi, soprattutto nel fotovoltaico, si sta facendo sentire causata anche dalla sovraproduzione e, si dice, con un conseguente crollo degli investimenti. Ma non pensa che in Italia qualcuno stia approffittando di questa situazione?

Gli incentivi, dal punto di vista della creazione di una filiera nazionale, sono stati decisamente inefficaci, per varie ragioni. La prima è che sono stati formulati in modo tale non da sostenere l’innovazione, ma premiare le tecnologie esistenti, in un momento in cui l’industria (per esempio fotovoltaica ed eolica) era già strutturata e matura in altri paesi. La seconda, e forse ancora più importante, è che, specie per il solare, gli incentivi erano sovradimensionati: se un investimento rende a prescindere dal merito tecnico del progetto, allora non c’è ragione al mondo per rischiare nella manifattura o, a maggior ragione, nell’innovazione. Sussidi eccessivi creano un’industria di installatori e consulenti finanziari.

Gli incentivi pagati ad oggi quanto hanno realmente supportato, secondo il vostro studio, la ricerca e l’innovazione nel settore delle rinnovabili in Italia?

Molto poco, per le ragioni che ho detto sopra. Con una patologia ulteriore: data la complessità e l’incertezza (di tempi e di risultato) dei percorsi autorizzativi, parte importante del valore dell’incentivo si è “incagliato” al livello del developer, che è sostanzialmente un intermediario tra il settore privato e la pubblica amministrazione.

Si dice che in Italia “saremo tutti cinesi”. La sovraproduzione asiatica inonderà l’Europa (come in parte sta già accadendo negli Stati Uniti) e gli aiuti destinati fino ad oggi a cosa saranno serviti?

E’ probabile e per certi versi è giusto che sia così. Dobbiamo capire a cosa servono gli incentivi: se l’obiettivo è ambientale (ridurre la CO2), allora è irrilevante se lo facciamo con pannelli cinesi o italiani. Se la concorrenza è solo sul prezzo (ed è inevitabile che sia così data la generosità degli incentivi, almeno fino a oggi) vince chi ha una struttura dei costi più conveniente. Se l’obiettivo era invece stimolare l’innovazione, non si capisce perché si sia scelta la strada di sussidiare tecnologie, per definizione, obsolete.

Come vede il futuro della nostra industria e non pensa che la responsabilità sia anche, in parte, della classe imprenditoriale italiana?

Dipende molto da quale strada prenderanno gli incentivi, visto che è abbastanza chiaro che nei prossimi anni serviranno ulteriori riforme. Se l’Italia (e l’Europa) si muoverà verso incentivi che siano i più blandi possibili e soprattutto che siano “technology neutral”, allora ci sono eccellenze italiane (per esempio nell’efficienza energetica, nel solare termodinamico e nelle biomasse) che possono trovare un forte mercato per crescere. Se, viceversa, continueremo sulla strada degli incentivi discriminatori (cioè diversi da fonte a fonte) allora temo continueremo a nuotare nella stessa acqua.

Che cosa è stato fatto e che cosa si può fare ancora sul fronte della ricerca e dell’innovazione? In ultimo, le rinnovabili possono e potranno essere un reale contributo economico alla crisi?

Si è fatto poco perché gli incentivi l’hanno disincentivato. Pensiamo al caso più clamoroso, quello del fotovoltaico fino al quarto conto energia: se un investimento nel pannello più scalcagnato e nella posizione meno ottimale dava un rendimento finanziario sicuro dell’ordine del 15 per cento, perché mai qualcuno avrebbe dovuto rischiare i suoi capitali per ricavare qualche punto percentuale in più di rendimento tecnico, che avrebbe aggiunto uno zero virgola alla performance economica dei suoi investimenti? La classe imprenditoriale italiana può avere delle colpe, ma dietro le colpe delle imprese c’è sempre un fallimento della politica.