La moda sostenibile è ormai una realtà nel mondo del fashion e tantissime sono le iniziative per sensibilizzare i consumatori verso gli acquisti responsabili
Tutto ebbe inizio il 24 aprile del 2013 con la tragedia del Rana Plaza dove persero la vita 1000 operai, per lo più giovani ragazze, rimaste schiacciate dal crollo di una fabbrica nella città di Dacca in Banglades dove si producevano vestiti per marchi di fast fashion quali Benetton, Mango e Monsoon Accesorize.
Da allora nel mondo si sono venduti montagne di abiti “low cost” che spesso costano poco più di un panino e che prevedono 2 collezioni l’anno con 52 micro stagioni annuali. Una sovra produzione di abiti e sui lavoratori
L’industria della moda è infatti la seconda più inquinante dopo quella del petrolio e solo l’1% dei vestiti viene riciclato (l’85% finisce in discarica). Numeri spaventosi in termini di consumi di acqua (20% di spreco globale d’acqua); emissioni di anidride carbonica (10%), uso di insetticidi (24%) e pesticidi (11%) con una produzione di gas serra maggiore di tutti gli spostamenti navali e aerei del mondo.
Una “leggerezza d’acquisto” su cui è intervenuta anche la Commissione Economica europea e a cui si stanno opponendo consumatori, produttori e trend setters. Tantissime infatti le iniziative nate in rete e non solo per sensibilizzare il grande pubblico sull’impatto della moda: #whomademyclothes (indossa un indumento al contrario, scatta una foto e postala sui social chiedendo ai brand “chi ha fatto i miei vestiti”); #Haulternative (tecniche per riciclare anziché acquistare); Be curious, find out, do something (iniziative per rendere più consapevole il consumatore nei confronti della filiera produttiva) e varie iniziative di lobbyng promosse da personaggi del mondo dello spettacolo, del fashion e della cultura.
Una spinta che arriva dal basso e che vede un interesse sempre più crescente verso la moda sostenibile. Ai primi posti la Finlandia, seguita dalla Danimarca, dalla Germania e dalla Svezia, L’Italia dodicesima nella classifica di Lyst, piattaforma globale di ricerche di moda che ha analizzato i dati relativi alle ricerche e agli acquisti di oltre due milioni di utenti in oltre 12000 e commerce e store online monobrand.
E’ olandese il primo museo di moda sostenibile al mondo e tantissime le iniziative nate a livello internazionale per favorire l’innovazione digitale e tecnologica nel mondo del fashion e del luxury. A Milano ha mosso i primi passi “Rethinking Fashion Sustainability”, organizzato dal Fashion Technology Accelerator per mettere a confronto aziende di diversa grandezza e coinvolte in diverse fasi della produzione riunite intorno a un tavolo con un comune denominatore: l’impegno per la salvaguardia ambientale”.
E a proposito di innovazione tecnologica, un’esperienza tutta italiana degna di nota è quella della Miroglio Textile, società del gruppo Miroglio, che ha investito in nuove tecnologie ed è oggi pioniera della stampa digitale per i tessuti. Una tecnica che permette il risparmio del 50% di acqua e inchiostro e che ha valso alla Miroglio Textile la sigla “Detox di Greenpeace” con un protocollo più restrittivo rispetto a quello previsto dalla legge italiana.
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