Tutti pazzi per la secondhand economy: gli abiti usati fanno il boom online. Tra stile e sostenibilità
Ha un nome: secondhand economy. E nessuno si interroga più sul mutamento epocale: c’è e basta. Nel secondo dopoguerra, comprare un abito usato significava “vorrei ma non posso”. Si faceva, ma guai a dirlo. Negli Anni 70 era un segno di protesta: gli hippy saccheggiavano le bancarelle in cerca di camicie a fiori, divise militari e giacche di lamé. Poi è arrivato il vintage e ha travolto tutti. Ma nessuno si aspettava i numeri raccolti dalla piattaforma di autenticazione Certilogo. E nessuno poteva prevedere il boom delle vendite online (la pandemia ha fatto lievitare le percentuali).
Photo e Vintage Versace Jeans by @nonaprirequellarmadio
In America negli ultimi tre anni il mercato dell’usato è cresciuto 21 volte di più rispetto a quello tradizionale, con 24 miliardi di dollari nel 2018 contro i 35 del fast fashion. Nel 2028, secondo le proiezioni, i rapporti si invertiranno, e l’usato salirà a 64 miliardi contro i 44 previsti per il low cost. GlobalData, nell’Annual resale report pubblicato alla fine del 2019, prevedeva già uno sviluppo pazzesco del secondhand stimando per il 2021 un valore di 37 miliardi di dollari solo negli Usa. E in Italia? Per l’Osservatorio Doxa il giro d’affari dell’usato vale 23 miliardi di euro, l’1,3 per cento del Pil ed è in costante aumento grazie all’online (9,8 miliardi di euro, il 43 per cento del totale). Siamo più vicini al concetto di lusso che a quello di mercatino delle pulci. A guidare il boom c’è, com’è ovvio, la generazione Instagram. Chi rientra nella fascia 18-37 anni compra di seconda mano 2,5 volte più di tutti gli altri e se ne vanta («Un Yves Saint Laurent autentico! A 50 euro!»)
L’usato è il nuovo must-have. Il mix tra abiti firmati di stagione e vintage è considerato cool anche rispetto al total look delle collezioni appena uscite. Poi c’è il bonus etico. Il riciclo è una risposta al bisogno di distinguersi senza spendere troppo e al desiderio di comportamenti sostenibili. Il secondhand fa sentire tutti più buoni: il risparmio di energia, acqua ed emissioni di Co2 è indiscutibile. Dice la stilista Marina Spadafora, coordinatrice per l’Italia di Fashion revolution, movimento che raccoglie 111 nazioni, e autrice con Luisa Ciuni del saggio La rivoluzione comincia dal tuo armadio (Solferino): «L’acquisto di un vestito è un atto politico e morale. Buttar via quello che non ti piace alla fine della stagione è contro l’ambiente, la terra, il clima». Meglio che la gonna, la giacca o la borsa facciano larghi giri prima di essere scartate.
Photo e Vestito vintage by @nonaprirequellarmadio
Instagram rispecchia questo mood: i ragazzi, in cerca di outfit sempre diversi, investono in abiti e accessori usati, li personalizzano, li modificano (la tendenza, sottolinea Certilogo, si chiama Fashion do it yourself ) e quando si sono stufati li rivendono, per esempio su Depop, market virtuale frequentato da celeb come Emma Chamberlain e Marzia Bisognin (YouTuber), Lottie Moss (sorella di Kate) e Chiara Ferragni. Ormai parliamo di “proprietà fluida”: compri un tubino, lo indossi due volte, lo fai tornare in circolo “come nuovo” e con il ricavato prendi qualcos’altro.
È un modello antispreco che piace ai millennial meno interessati di altri all’idea di possesso. Condividi, fai decluttering. E i soldi girano. Rebag ha venduto più borse durante il lockdown che nel black friday. Vintag, app di vintage deluxe, ha chiuso aprile con un +200 per cento rispetto a marzo, TheRealReal e Vestiaire Collective, in continua espansione, hanno incassato una crescita a due cifre sul 2019. I Rolex “secondo polso” vanno a ruba, il mercato dei brand (Gucci, Prada, Dior, Chanel) è vivacissimo. Si trova e si compra di tutto, porcellane, auto, ex voto, anche se la moda è ancora la fetta più importante. E tutti vogliono esserci. Persino Galeries Lafayette, storico grande magazzino francese, ha varato il progetto Le Good Dressing, un sito di secondhand in partnership con Place2Swap. Prezzo massimo 250 euro. E navigando da una piattaforma all’altra c’è sempre la speranza di un buon affare. Secondhand economy, appunto.
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