Tra cinque anni la Germania chiuderà definitivamente il capitolo carbone durato oltre un secolo e mezzo. Un’industria che a metà del 1900 dava lavoro a 600.000 operai: nel 1957 le miniere in attività erano ben 141 con una produzione di 132 milioni di tonnellate e un’importazione di manodopera straniera. L’estrazione dello Steinkhole, così i tedeschi chiamano il carbone, diventata oggi insostenibile per gli alti costi della manodopera, è stata il perno della crescita economica della Germania.
A decretarne la fine l’Unione Europea che ha chiuso i rubinetti delle sovvenzioni dedicate all’industria carbonifera e che ha chiesto il definitivo smantellamento delle miniere entro il 2018. Già negli anni ’60 però la concorrenza dei prodotti a basso costo ne ha segnato l’inizio della fine. Tra il 1958 e il 1964 c’era stata la chiusura di 35 pozzi con una produzione annua di 12 milioni di tonnellate e con la perdita del posto di lavoro per 53 mila minatori. Uno smantellamento che è andato avanti negli anni fino a che, nel 1966, coloro che lavoravano nelle miniere si erano ridotti della metà rispetto agli anni ’50.
Oggi il carbone di cui la Germania continua ad aver bisogno arriva soprattutto dalla Colombia, che per i suoi bassi prezzi rimane il primo fornitore davanti a Russia e Stati Uniti. E mentre il capitolo dello Steinkhole si avvia alla fine, si apre un’altra vicenda su cui non mancano i pareri discordi. E’ il Braunkhole, la lignite che arriverà a fornire il 25% dell’energia elettrica di cui i tedeschi hanno bisogno. Il vantaggio di questa risorsa è di poter essere estratto a cielo aperto, con costi ridotti grazie alle enormi scavatrici che stanno letteralmente ingoiando interi villaggi tra Dusseldorf ed Aquisgrana. Per non parlare poi delle emissioni di anidride carbonica che, nel 2044, quando l’area estrattiva avrà raggiunto la superficie di oltre 48 chilometri quadrati, arriveranno a oltre un miliardo di tonnellate riversate nell’aria.
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