Una storia di ordinaria follia nel magico mondo delle Partite IVA che prima di difendersi dal Fisco devono difendersi da chi gestisce per loro conto la contabilità: i commercialisti
Se incappi in un professionista iscritto ad un Ordine professionale sappi che, il più delle volte, non c’è via d’uscita. Se sei un cittadino/cliente puoi solo sperare di salvarti al minimo del danno (economico), ma levati dalla testa di essere ascoltato da qualcuno (a meno che tu abbia voglia di sollevare un gran polverone).
E’ questa la storia di ordinaria vessazione raccontatami da un’amica (Marta) che ha ricevuto una lettera del Giudice di Pace per un vecchio credito vantato nei suoi confronti dall’ex commercialista.
Un rapporto di collaborazione iniziato nel migliore dei modi che dopo cinque anni viene meno perché il commercialista, per non si sa quale motivo, non informa la mia amica che aveva sforato – per il secondo anno consecutivo – il regime dei minimi.
La cosa eclatante è che l’inadempienza non era dovuta alla “disattenzione” del professionista ma al fatto che l’amica – così sosteneva il commercialista – aveva prodotto i documenti solo a chiusura dell’anno contabile. Non volendo entrare nel merito di questioni puramente ragionieristiche, peraltro poco interessanti per chi legge, alla fine Marta decide di interrompere il rapporto di collaborazione per evidente giusta causa.
In tutta risposta si vede pervenire una richiesta via avvocato di emolumenti cinque volte superiori a quelli degli anni precedenti, compresi di tutte le attività svolte per “sanare la situazione”. E dato che Marta è anche madre e crede fermamente nel “buon esempio da dare ai figli”, decide di non arrendersi di fronte a quella che ritiene una vera e propria ingiustizia.
Un’altra amica avvocato (tra donne, si sa, scatta subito la solidarietà di genere) prepara una lettera di risposta a cui, dopo un vano tentativo di conciliazione sulla cifra (sempre spropositata rispetto alle precedenti), non segue più nessuna richiesta con buona pace di Marta
E invece ecco che, dopo un anno esatto, arriva a casa (mentre l’amica è in vacanza con i figli) un ricorso per decreto ingiuntivo: il commercialista si è rivolto al suo Ordine per riscuotere il dovuto che gli è stato ovviamente riconosciuto e a quel punto può procedere per richiederne ufficialmente il pagamento. La richiesta è stata giudicata congrua rispetto alle attività svolte. Peccato però che il danno l’ha subito Marta (ha dovuto recuperare dai clienti due anni di IVA non versata oltre a pagare more e interessi) e delle contestazioni fatte dal suo avvocato, neanche l’ombra.
E fin qua siamo solo all’antefatto. Dopo questa esperienza, costata negli anni altre cartelle esattoriali, Marta si rivolge a un nuovo studio sperando che questa volta le cose vadano per il meglio. Sembra essere finalmente tornato il sole fino a che Marta decide di chiudere la partita IVA. Sospende il rapporto di collaborazione e chiede la restituzione dei propri documenti. In risposta arriva la richiesta di pagamento ma nessuna notizia di quando le carte torneranno a Marta come peraltro previsto dal codice deontologico dei dottori commercialisti. Dopo diversi solleciti scrive un’altra volta all’Ordine di appartenenza del nuovo commercialista perché la fiducia in chi dovrebbe vigilare non è venuta meno. Magicamente arriva la notizia (dopo tre mesi) che i documenti sono pronti. Un altro colpo di scena però attende Marta, che nel frattempo si era anche premurata di versare una parte dell’onorario dovuto, a dimostrazione della propria buona fede. Bisogna presentarsi di persona, non si può far ritirare i propri documenti da un pony express e soprattutto bisogna pagare. Non conta se nel frattempo sono state spedite mail e contromail in cui si avvisava che qualcuno avrebbe ritirato i documenti né che la buona fede nei confronti dell’operato del professionista è venuta meno e quindi è lecito prendersi del tempo per far controllare le carte.
Il professionista ha sempre ragione perché alla fine il rapporto di collaborazione, almeno nel caso delle caste, sembra essere a una sola via. Una via che porta l’Ordine a dare ragione, sempre e in ogni caso al loro iscritto, e il contribuente a pagare o a complicarsi inutilmente la vita per riavere ciò che li spetta di diritto.
La cosa sconcertante, su cui si interroga l’amica, è che in tutta questa faccenda nessuno le ha mai chiesto la sua versione dei fatti né che i professionisti (ben due in questa storia) hanno mai ammesso di aver sbagliato. Forse anche lei, cittadina che paga le tasse (e che da questa storia ci ha rimesso tempo, soldi e inutili mal di pancia), aveva dei buoni motivi per aver messo in piedi tutto questo caos.
Del resto una madre di famiglia, al contrario di un professionista, non è investita da missioni divine e non ha santi in paradiso a cui appellarsi. Se fai parte di una corporazione e ti affidi a loro, ti premiano sempre per la fiducia e il rapporto non prevede che “il cliente abbia sempre ragione”. Anzi, il più delle volte ha torto.
Parlare oggi di riforme degli Ordini per un cittadino vuol dire, al di là delle polemiche sulle tariffe minime, avviare un dialogo dove il cittadino/cliente – a cui almeno per questa storia concediamo il beneficio del dubbio – dovrebbe avere il sacrosanto diritto di essere ascoltato prima, senza ricorrere ad avvocati e Tribunali. E soprattutto, se esiste un codice deontologico che venga almeno rispettato. Questo vorrebbe dire più trasparenza per il cittadino, meno mercificazione e più rispetto del lavoro di tanti seri professionisti iscritti agli Ordini professionali.
Questo articolo è stato pubblicato su Fanpage.it
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