Torna il 24 aprile in tutto il mondo il Fashion Revolution Day, la campagna internazionale per promuovere un’industria della moda più etica e giusta, coordinata in Italia dalla stilista Marina Spadafora e sostenuta da Altromercato
“Può un hastag cambiare il mondo della moda?” E’ questa la domanda che si è posto ieri il quotidiano britannico, The Guardian, a proposito del Fashion Revolution Day (#FashRev) la campagna internazionale per promuovere una moda più giusta e più etica. Ed è proprio l’hastag “Whomademyclothing”, il pay off dell’iniziativa che si svolgerà il prossimo 24 aprile in 66 paesi.
Coordinata in Italia dalla stilista Marina Spadafora, sostenuta da Altromercato e lanciata in occasione dell’anniversario della strage di Rana Plaza a Dhaka, in Bangladesh, dove nel 2013 hanno perso la vita 1.133 operai del tessile, la campagna pone a tutti la domanda: “Chi ha fatto i miei vestiti?”. Per rispondere, basterà indossare gli abiti al contrario, con l’etichetta in vista, fotografarsi e condividere le foto attraverso i social media (Facebook e Twitter) con l’hashtag #whomademyclothes, inviandole anche ai grandi marchi della moda e condividendo le loro risposte.
Giunto alla seconda edizione (in Inghilterra è nato da un’idea di Carry Somers, pioniera del fair trade), il Fashion Revolution Day quest’anno diventa ancor più virale e vede centinaia di eventi in tutto il mondo, tra cui l’Italia. Piccoli produttori indipendenti, retailer, laboratori di sartoria e celebrities quali Elio Fiorucci, Bernardo Bertolucci, Domiziana Giordano e Paola Maugeri, per un giorno indosseranno le magliette all’incontrario per chiedersi – e chiedere – #whomademyclothes.
Perché scegliere cosa acquistiamo è il primo passo verso la consapevolezza anche nel mondo della moda dove il consumatore può, oggi più di ieri, esercitare il proprio potere. Già perché anche la moda, così evocativa, capace di farci sognare di essere più belle grazie a un abito, ha un discreto costo ambientale, oltre che umano. E le cifre sono da brivido. L’industri del tessile è il più grande inquinatore al mondo, secondo solo all’agricoltura; una t-shirt per arrivare nei nostri negozi preferiti ha bisogno di 1/3 di libbra di fertilizzanti tossici; un paio di jeans prima di essere indossati consumano 2000 litri pari quasi a 300 docce; il raccolto del cotone utilizza il 17% degli insetticidi del mondo. Insomma un’impronta ambientale per nulla soft di cui si parla ancora troppo poco e su cui anche i Governi tendono a chiudere un occhio.
A che punto siamo e dove si può arrivare per far capire che cosa e chi sta dietro una semplice T shirt, lo abbiamo chiesto a Marina Spadafora, direttrice creativa di Auteurs du Monde, la linea di moda etica di Altromercato, e coordinatrice del Fashion Revolution Day in Italia insieme a Virginia Pignotti, Laura Tagini e Carlotta Grimani.
La comunicazione virale può molto ma, nella realtà, quanta attenzione c’è da parte dell’opinione pubblica, soprattutto italiana, ai temi dell’etica e della sostenibilità nella moda?
In Italia stiamo muovendo i primi passi ma i segnali non mancano. Siamo ancora indietro rispetto a paesi come Stati Uniti, Inghilterra e Paesi scandinavi ma vedo sempre più giovani che chiedono e vogliono risposte su cosa indossano, su dove è stato prodotto, su chi l’ha prodotto, su quali trattamenti salariali hanno avuto i lavoratori. In particolare la generazione nata tra gli anni 80 e il 2000 detterà le nuove tendenze del futuro e lo farà senza troppe mediazioni.
E che ruolo avranno in tutto questo i grandi brand?
Sicuramente “il risveglio della consapevolezza” sta investendo tutti, dall’alta gamma al fast fashion. Pensiamo ad esempio al successo della campagna di H&M, Conscious, la linea realizzata con materiali eco-friendly, o a Valentino, che ha aderito alla Detox Campaign di Greenpeace per eliminare dalla propria filiera le sostanze tossiche. Ma anche un colosso come LVHM, gruppo a cui fanno capo marchi prestigiosi come Louis Vuitton, Givenchy, Emilio Pucci, Marc Jacobs, Bulgari e Loro Piana, ha da tempo instituito una commissione dedicata all’ambiente. Un grande flusso che dall’alto si muove verso il basso e che, prima o poi, arriverà a far incontrare il consumatore consapevole con chi fino ad oggi ha dettato le regole del mercato.
Anche nella moda si è iniziato a parlare di filiera etica e di consapevolezza di fronte a un disastro che ha visto la morte di 1.133 operai del tessile. I temi della sostenibilità devono sempre passare dalle grandi tragedie?
Sicuramente l’effetto mediatico della tragedia del 2013 ha avuto il suo peso così come l’impegno delle associazioni a difesa delle vittime di Rana Plaza. Lo scorso mese di febbraio Benetton ha finalmente dichiarato di voler risarcire le vittime. Un risultato importante che ci auguriamo abbia contributo a risvegliare un’opinione pubblica fin troppo addormentata. Come dico spesso: “Scegliere cosa acquistiamo può creare il mondo che vogliamo: ognuno di noi ha il potere di cambiare le cose per il meglio e ogni momento è buono per iniziare a farlo”. Oggi l’invito è indossare una semplice maglietta al contrario per mostrare l’etichetta, domani chissà. Voglio pensare che passo dopo passo l’etica non sia più solo un hastag ma una realtà consolidata in tutta la filiera del fashion.
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